Una leggenda popolare assai diffusa racconta che una regina è stata ingiustamente rinchiusa fra queste austere mura.
Il Castello di Domòfole, la leggenda
Da Traona salendo verso Mello, dopo qualche tornante troveremo, in località Castello, un cartello che indica il castello ed indirizza ad una stradina che si stacca, sulla sinistra, dalla strada e diviene ben presto sentiero; seguendolo, in pochi minuti raggiungiamo i ruderi del castello di Domòfole, recentemente sottoposti ad un restauro che li ha restituiti ad una vita dignitosa.
Da Traona si può salire anche a piedi tramite un sentiero che costeggia il torrente Vallone sulla parte destra.
Il castello altomedievale, di cui restano solo la torre, parte del muro e della cappella di Santa Maria Maddalena, era chiamato popolarmente Castello della Regina, essendo diffusa la credenza che vi avesse dimorato la regina longobarda Teodolinda. E’ probabile che la fortezza sia stata piuttosto prigione di una meno nota regina longobarda Gundeberga (figlia di Teodolinda), accusata ingiustamente di aver tramato per far morire il marito, il re Arioaldo (o Rodoaldo), con la complicità del duca di Toscana Tosone. Lo afferma lo storico settecentesco Francesco Saverio Quadrio, nelle sue “Dissertazioni critico-storiche sulla…Valtellina”.
Una leggenda popolare assai diffusa racconta che una regina è stata ingiustamente rinchiusa fra queste austere mura. Una regina che neppure dopo la morte ha potuto trovare pace per la calunnia che l’ha colpita. Una regina che, nelle chiare notti estive, torna a visitare il luogo delle sue sofferenze, vestita del colore dell’innocenza, cioè di bianco. Sembra che si aggiri, senza pace, nei sotterranei, ma talvolta esce all’aperto, forse a guardare il cielo. La si può scorgere, passando nei pressi del castello nel cuore della notte. Si può vedere una figura diafana, la figura di una dama bianca, che si staglia contro il cielo, incerta e pallida come un riflesso della luna, alta, in cima alle mura diroccate, come una candida torre d’avorio, silenziosa, come il cuore di una notte senza vento. Una figura che ispira pietà più che paura. Ma di chi si tratta? Diverse le versioni in campo.
Forse è l’illustre Teodolinda, la più famosa fra le regine longobarde, che ha legato la sua fama al tentativo di convertire il suo popolo dall’Arianesimo al Cristianesimo ortodosso. Il suo tentativo le attirò contrasti ed anche odi all’interno del suo popolo. In particolare, si narra che venne in Valtellina per convertire le genti di questa valle al Cristianesimo. La sua opera ebbe ovunque successo, si dice, tranne che fra le popolazioni della costiera che va dall’attuale Dubino a Paniga, popolazioni che rimasero ostinatamente attaccate ai culti pagani. Forse per dar maggiore vigore alla sua opera, allora, Teodolinda soggiornò proprio nel castello di Domofole, o, come si chiamava anche anticamente, Domophile.
Scrive, al proposito, Lina Rini-Lombardini, nel bel volumetto “In Valtellina, colori di leggende e tradizioni” (Ed. Ramponi, Sondrio, 1961, pp. 124-125): “Il torrione di Demofole…, con mura formate da conci di granito di varia grandezza, ha una finestra a sesto acuto. Si pensa: “Qui si affacciò Adelaide, la prossima sposa di Ottone II”. Prima di lei, secondo la tradizione, Demofole, bel castello, aveva accolto la longobarda Teodolinda; in pompa di regina e in umiltà di cristiana. Cristiana fervorosa che, narra la leggenda, convertì alla fede gli abitanti della nostra valle. Tutti, meno quelli detti poi “cech”: ciechi alla fede. Fu lei che mandò a cercare, per devolvere a nostre opere di bene, l’oro, nelle montagne Orobie (così dette per quella gran ricchezza di prezioso metallo).”
L’autrice attribuisce però queste notizie alla leggenda, poiché l’edificazione del castello dovette risalire ai secoli XI o XII.
Non lasciamo, però, per ora, i fascinosi sentieri della leggenda. A nulla valse, dunque, l’infaticabile azione di Teodolinda presso le genti che contornavano l’orgoglioso castello della Regina: queste popolazioni rimasero sorde all’annuncio della nuova fede, e sembra che da allora furono denominate Cèch, vale a dire cieche di fronte alla luce della verità. Forse la dama bianca, dunque, è la grande regina che non si dà pace per il suo insuccesso.
Un insuccesso che non rimase limitato all’opera di conversione. La leggenda, come abbiamo visto nel passo citato dalla Lombardini, ha un secondo e più misterioso risvolto. Narrano che i monti di fronte alla Costiera dei Cech vennero anticamente denominati “Orobie” perché custodivano nel loro cuore il più ambito dei metalli, l’oro. Ne venne a conoscenza l’ambiziosa regina, che, durante il suo soggiorno in Valtellina, non pensò solo alle cose del cielo, ma anche a quelle della terra, e mandò diverse spedizioni ad esplorare quelle misteriose valli che si nascondevano, più che aprirsi, al suo sguardo, quando, dal suo castello, guardava verso sud.
Le spedizioni fallirono: i messi tornarono a mani vuote, oppure non tornarono affatto. Forse la dama bianca, che compare sulle antiche mura, è proprio Teodolinda che rivolge con insistenza lo sguardo alle montagne che non vollero dischiuderle il loro segreto, e che mai vollero dischiuderlo ad essere umano. Forse, invece, è sua figlia, la meno nota ed assai più sfortunata Gundeberga.
Costei, come narra lo storico Sidonio Apollinare (ripreso, come abbiamo visto, da Francesco Saverio Quadrio), era andata in sposa ad Arioaldo, re dei Longobardi. Di lei si innamorò Adalolfo, che le manifestò i suoi sentimenti e le chiese di diventare suo amante. La regina rifiutò ed Adalolfo, ferito nel suo orgoglio più ancora che nel suo amore, macchinò una perfida vendetta. Fece circolare, ad arte, voci calunniose che parlavano di una tresca della regina con il potente duca di Toscana Tatone (o Tosone), di un progetto che prevedeva, addirittura, la morte del re Arioaldo, e la sua sostituzione con il duca traditore. Più volte, infatti, il duca, durante i suoi viaggi alla corte di Pavia, aveva manifestato una particolare devozione per la sua regina, una devozione troppo accesa, come volevano le voci malevole, mentre si era mostrano assai più freddo nei confronti del re.
La calunnia, come si sa, è un venticello che poi diventa turbine: calunniate, calunniate, che qualcosa resterà, così si dice anche. E quel che restò fu assai doloroso per la regina: la calunnia giunse alle orecchie di Arioaldo, che ne chiese subito ragione alla consorte. Costei protestò vivacemente la propria innocenza, non tanto da persuaderlo interamente, ma quando basta per dissuaderlo dal comminare la pena che si deve ai traditori, la morte.
Il re, nel dubbio, decise quindi di far rinchiudere la moglie in un castello lontano, dove, sicuramente, non avrebbe potuto continuare a tessere le fila del complotto, se di complotto veramente si trattava. Correva l’anno 634, ed egli scelse il castello che già aveva ospitato la madre Teodolinda, nella lontana Valtellina. Il castello di Domofole, appunto.
Lì Gundeberga rimase rinchiusa, per tre lunghi anni, continuando a proclamare la propria innocenza. Intanto il re non se ne stette con le mani in mano, ma diede ordine di condurre un’approfondita inchiesta, interrogando innanzitutto il duca sospettato di tradimento. Tre anni, appunto, durò l’inchiesta: alla fine trionfò la verità, la calunnia venne scoperta come tale, ed a pagare fu il perfido Adalolfo, mentre la regina riebbe la sua libertà. Ma forse è lei che torna, di tanto in tanto, come fantasma, sui luoghi del dolore, di quel dolore amarissimo che non poté essere ripagato neppure dalla riabilitazione.
Sempre che quel che scrive Sidonio, che parla di un castello di Amello, vada inteso come un riferimento al castello di Mello, e non a quello di Lomello, come vogliono altri interpreti. In questo secondo caso la dama bianca non sarebbe lei, ma, forse, una terza regina, Adelaide, vedova del re Lotario, anche lei, come narrano, imprigionata nel castello.
O forse non si tratta di nessuna di queste regine, ma di qualche anima sventurata, senza pace, che, per motivi che ci sono ignoti, ha avuto a che fare con questo castello. Probabilmente non lo sapremo mai. Né vedremo mai, con i nostri occhi, la pallida figura che si staglia contro il cielo stellato. A meno che, a notte fatta, abbiamo l’ardire di ripercorrere il sentiero che porta nei pressi del rudere, ed il nostro ardire sia premiato dallo spirito inquieto, con la rivelazione di quel segreto finora sconosciuto ai viventi. Nell’attesa accontentiamoci di conoscere la storia del castello.
Il Castello di Domòfole, la storia
E’ possibile che alla fine del VI secolo il re longobardo Agilulfo, abbia fatto questo castello, dove per qualche tempo avrebbe soggiornato la moglie, la celebre regina Teodolinda, dalla quale sarebbe derivata la tradizionale denominazione di “castello della Regina”. Si ipotizza anche che vi sia stata imprigionata Gundemberga, figlia di Teodolinda, accusata di adulterio.
Qualche secolo più tardi, nel 950, vi sarebbe stata imprigionata anche la regina Adelaide, catturata dopo la fuga per evitare il matrimonio con Adalberto, figlio del Re d’Italia Berengario. Secondo lo storico Egidio Pedrotti (cfr. “Castelli e torri valtellinesi”, Milano, Giuffré, 1957, pg. 25) a questo episodio si deve la denominazione di “castello della Regina”.
Il primo documento storico che menziona la fortificazione è, però, più tardo, e precisamente del 1023. Incerto è anche l’etimo: l’Orsini ritiene che il suo nome derivi da “domare le folle”, con allusione alla sua funzione di presidio contro disordini ed insurrezioni. Bisogna, però, tener presente che “Domofole” era anche, nel medio-evo, nome personale. Le varianti “Demophile” e “Demofole” fanno, infine, pensare ad un’origine greca, da “demos”, popolo, e “philos”, amico, nel significato, dunque, di “amico del popolo”.
Nel secolo XI la fortificazione passò ai Vicedomini, la potente famiglia feudale che da Como si insediò nella bassa Valtellina prima dell’anno Mille. La famiglia si divise in due rami, che dominavano l’uno sul versante meridionale della bassa valle, con centro nel Castello di Cosio Valtellino, l’altro su quello settentrionale, con centro, appunto, nel Castello di Domofole.
Siccome la fortezza era centro della potenza del ramo della famiglia che dominava sull’intero versante retico noto come “Costiera dei Cech” (o, semplicemente, la “Costéra”), questa zona veniva chiamata, in quei secoli, “comunitas montaneae Demopholi”, comunità dalla quale si staccarono i comuni della futura squadra di Traona. Per diversi secoli ancora l’attuale Val Masino veniva semplicemente denominata “monte di Demofele”.
La già citata Lina Rini-Lombardini riporta un episodio storico che ha sempre come cornice la possente fortificazione (op. cit., pg. 126): “A Demofele, allora castello appena sorto, venne da Como nel 1195 la sposa Galizia a Giordano Vicedomini, accolta con gran feste: ardenti fiaccole di gioia fra le merlature e i cornicioni; fluir di voci e di sete lungo il ballatoio alto tutt’intorno a corona sul cortile dal pozzo inghirlandato di vitalba. Per venire allo sposo, Galizia aveva osato passare sul lago fra lotte di Guelfi e Ghibellini; scampò quasi per miracolo. Serena, anomosa, certamente bella, fu felice?”
Alla fine del XIII secolo la Valtellina fu coinvolta nelle lotte fra famiglie comasche dei Vitani (o Vittani), guelfi, e dei Rusconi, ghibellini. Nell’agosto del 1292 i primi riuscirono a cacciare dalla Valtellina i Rusconi, ed i Vicedomini, amici di questi ultimi, pagarono le conseguenze della vittoria guelfa: in quel medesimo 1292 il castello, simbolo del potere ghibellino, venne fatto distruggere dai Vitani. I Vicedomini, però, lo ricostruirono subito dopo, ampliandolo e facendone la loro dimora.
La Lombardini (op. cit., pg. 126), sostiene che, a metà del Quattrocento circa, nel castello fu teatro di un nuovo dramma, quello di Giovannina, imprigionata dallo zio Andrea Vicedomini, che poi morì pazzo.
Nel primo quarto del successivo cinquecento, e precisamente nel 1524, venne la seconda distruzione, questa volta per ordine delle Tre Leghe Grigie, che dal 1512, avevano resa tributaria la Valtellina. Dopo aver subito il tentativo di riconquista della valle operato dal Medeghino, i Magnifici Signori Reti pensarono bene di abbattere nella valle tutte le fortificazioni che potessero, in futuro, servire come base d’appoggio per analoghi tentativi di ribellione al loro dominio.
Terminarono, così, i fasti della potente fortezza, segnata da memorie e leggende di splendore e d’impenetrabile ombra. Il castello venne, infatti, abbandonato ed iniziò a subire un progressivo degrado, fino alla recente lodevolissima iniziativa del comune di Mello, che ha curato il restauro delle strutture rimaste. La chiesa di Santa Maria Maddalena, infine, anch’essa restaurata, a nord del torrione, non appartiene storicamente al corpo del castello, in quanto fu costruita alla fine del secolo XVI.
- BIBLIOGRAFIA:
- Egidio Pedrotti, “Castelli e torri valtellinesi”, Milano, Giuffré, 1957
- Rita Pezzola, “Uno sguardo dal castello di Domofole: materiali e riflessioni per una storia della bassa Valtellina nel Medioevo, secoli IX- XII”, edito dalla Comunità Montana Valtellina di Morbegno, con foto di Vincenzo Martegani.
Fonte: ©Massimo Dei Cas – Paesi di Valtellina